La pagina bianca mi spaventa come se fosse la prima volta che prendo una penna in mano con l’intenzione di scavarmi dentro. Eppure, oggi come vent’anni fa, l’ebbrezza del sentirmi artefice della parte di me che sto per scolpire sul foglio rimane dirompente, stimolante, meravigliosa. E non importa se è l’ultima volta; non importa se queste righe non le leggerà mai nessuno: è scriverle che mi libera da queste catene e mi permette di uscire da questa cella. È mettendo l’inchiostro sul foglio che riesco a dimenticare queste sbarre spesse e minacciose, ad attraversare queste pareti umide e scure, e a viaggiare. Viaggiare lontano, dove nessuno, tranne me, avrà mai la possibilità di andare. Viaggiare per terre che credevo di aver dimenticato per rivivere momenti a cui sono inspiegabilmente sopravvissuto. Viaggiare indietro nel tempo, allo scopo di essere pronto ad affrontare il destino che mi si profila davanti. Per un’ultima volta.
Già. L’ultima volta. Mi dà una sensazione strana dover usare un’espressione così cinica e priva di emotività per catturare un momento che è invece denso di sentimenti, ricordi, rimpianti e anche di una certa pressione. Eppure queste due parole sintetizzano la mia situazione in maniera perfetta: domani mattina, alle nove in punto, io, Martin Saranen, sarò impiccato nella piazza centrale di Eden, piccolo e sconosciuto villaggio di campagna. È probabile che tutti e cinquecento i cittadini, perlopiù contadini e operai, verranno ad assistere; sarà normalissimo per loro rimandare i propri doveri e alterare la propria quotidianità per vedere un uomo che muore. Probabilmente partirà anche qualche applauso di incoraggiamento quando sarò sul patibolo; mi chiedo se troveranno il modo di indirizzarmi gli ultimi insulti o se avranno la decenza di lasciarmi andare via in pace, o quantomeno in silenzio. Sicuramente c’è tanta curiosità nel vedere come si muore quando si sa di dover morire. Il paradosso è che la condivido anch’io, perché non lo so ancora quale sarà il mio ultima pensiero, come saranno i miei occhi, come reagirà il mio cervello. Non è una cosa che posso pianificare.
Per quanto riguarda la parte burocratica, è già tutto deciso. Questa notte è tutto quello che mi resta. Io ho scelto di donarla alla scrittura, l’unica che non mi ha mai tradito, l’unica che non mi ha mai abbandonato, neanche adesso. Sono le tre e dodici di mattina della mia ultima notte; mancano poche ore alla mia ultima alba, al mio ultimo sole, alla mia ultima colazione, che presumibilmente sarà lo stesso intruglio senza sapore che Jack la guardia mi porta ogni mattina dal giorno del mio arresto. L’ultima volta. Fa strano sentirlo, no?
Il giudice ci ha messo poco più di un mese ad emanare la sentenza, ma la verità è che tutti sapevamo come sarebbe andata a finire, io per primo. Altre opzioni non ce n’erano. Che io abbia premuto quel grilletto o meno oggi non ha alcuna importanza, ammesso che ne abbia mai avuta. Quei due sono stati trovati in un letto, nudi, i corpi crivellati; lei era un mio vecchio amore post-adolescenziale, a oggi l’unico il cui ricordo riesce ancora a farmi battere il cuore nonostante la maniera turbolenta in cui la nostra relazione si è conclusa; lui era stato il mio migliore amico, quasi un fratello dopo che i miei genitori morirono in quell’incendio che si portò via la mia casa quando avevo undici anni. Però quando, a ventuno anni, sentii l’esigenza di lasciare Eden e di esplorare il mondo esterno, nessuno dei due fu capace di perdonarmi. Lì si concluse ogni forma di comunicazione.
Quando tornai, quattordici anni dopo, io scrittore di successo, lei medico e punto di riferimento per la città, lui sindaco e rappresentante dei cinquecento abitanti di Eden, non ci furono il tempo e il modo di riallacciare i rapporti, possibilità che oggi è stata abbattuta insieme alla loro vita. Tutti, in paese, ricordavano le nostre discordie: il verdetto, quindi, non sorprese nessuno, ma venne anzi accolto con gioia sia da quelli che volevano giustizia per il proprio rappresentante e per quella povera donna, sia da quelli che, spesso segretamente, mi consideravano un traditore per aver fatto successo lontano da casa e pregustavano la mia caduta. Agli occhi del gregge, è stato facile passare dall’essere il Martin scrittore, il Martin poeta, a essere il Martin traditore, il Martin assassino. I giornali domani eviteranno di dire che la mia ultima notte l’ho trascorsa scrivendo in una cella fredda e polverosa alla luce fioca della debole fiamma d'una candela mezza consumata, o che il mio ultimo desiderio non è stato un pasto caldo o un letto accogliente, ma una penna e un pezzo di carta; non citeranno le mie opere, ed è probabile che parleranno di me come uno straniero, omettendo che Eden è il luogo in cui sono cresciuto, la cosa più vicina a una casa che abbia mai avuto, e se oggi io sono così, è questa città ad avere almeno parte della responsabilità. A nessuno verrà in mente di provare a immaginare i miei ultimi pensieri, i miei ultimi desideri. Per loro esisto solo in quanto criminale, in quanto assassino. Riesco già a immaginare il titolo del quotidiano locale: Giustizia è finalmente stata fatta: Saranen è morto. Finalmente. Giustizia fatta. Saranen morto. Giustizia. Morto. Io nella morte di giustizia non ne vedo, ma che importanza ha? Io sono solo un condannato che pretende di avere ancora una voce.
C’è un senso di completezza nel trascorrere la mia ultima notte qui dentro, coperto di polvere e di sporcizia. Questa cella, per quanto squallida, mi ha accettato nonostante mi abbia visto nei miei momenti peggiori, come quando, poche ore dopo il mio arresto, ero a un passo dal collasso psicofisico mentre stavo tentando di metabolizzare l’accaduto. Non è facile assimilare la morte di due persone che hanno avuto una tale importanza nella tua esistenza, seppure così tanti anni fa; ancora meno se sei tu a doverne pagare le conseguenze. Nel suo silenzioso squallore, questa cella è stata l’unica ad avermi accolto senza riserbo, senza giudizio o pregiudizio, una sorta di casa. È quindi giusto che mi faccia da testimone adesso che ogni tassello prende il suo posto nell’indelebilità dell’inchiostro, lei che mi permette di eludere la sua natura opprimente per continuare questo viaggio, indispensabile perché io domani possa salire su quel patibolo senza rimpianti.
Ricordo quando vennero nel cuore della notte nel mio appartamento; quattro rappresentanti della legge, brave persone armate di pistole e manganelli. Io stavo scrivendo; ero nel bel mezzo di una di quelle vampate di creatività che, nei rari momenti in cui compaiono, ti permettono di conoscere parti di te stesso che non pensavi fossero concepibili. Non fu perciò difficile sorprendermi. Non so come non li sentii entrare, sarà che ero così perso dentro la carta che avevo davanti. Una sorta di trance letteraria. A riportarmi alla realtà con ben poca grazia furono quattro braccia possenti che mi immobilizzarono, e un colpo di manganello che mi smozzò il fiato.
Mezz’ora dopo, prima di chiudere la cella, ricordo che Jack mi disse: “Potevi almeno provare a scappare, ad opporre resistenza, a coprire le tracce. Hai fallito la tua unica chance”. Io sorrisi amaramente, ripensando all’opera che avevo lasciato a casa, incompiuta; il motivo per cui, due anni prima, ci ero tornato, a Eden. L’avrei intitolata L’Eden fallito. L’ironia della sorte.
L’idea di tornarci, qui a Eden, nacque all’improvviso. La vita da scrittore di successo mi piaceva e mi calzava a pennello. D’altronde, la capacità di trasformare i fatti della vita in inchiostro è sempre stata la mia caratteristica migliore; penso che persino quei tanti che adesso sono là fuori e non vedono l’ora di vedermi stramazzare farebbero fatica a negarlo. Ero bravo in quello che facevo; ero bravo ad osservare ed ero bravo a scrivere facendomi capire. Però, più il tempo passava, più Eden mi stava stretta, e specialmente dopo che il mio amore con la donna per cui oggi mi trovo qui finì in malo modo, sentii il bisogno di andare via, dimenticare le mie radici, che mi avevano cresciuto, ma che mi avevano strappato via i miei genitori e la mia infanzia in un colpo solo, divorati dalle fiamme. Quando, dieci anni dopo l’incendio, dimagrito e incattivito, decisi di partire, andai via senza salutare nessuno, senza guardarmi indietro. Forse fu un errore, ma la mia corazza non era ancora pronta a rompersi, e agire d’impulso era l’unico modo di agire che conoscevo. Due anni dopo, il mio romanzo Il buio di provincia era in cima alle classifiche nazionali. I miei lettori ignoravano le mie origini e io non facevo nulla per illuminarli. Al contrario, sguazzavo volentieri in quell’alone di mistero che circondava la mia figura, e lo usavo a mio vantaggio. Il mio romanzo successivo, anch’esso successo nazionale, lo intitolai Figlio del nulla. Chissà quanto tempo impiegarono gli abitanti di Eden a capire che Martin Saranen era quell’orfano mingherlino che ogni tanto si ritrovavano in casa a chiedere un pezzo di pane, e che la “provincia” e il “nulla” altro non erano che metafore per la loro amata cittadina? Chissà se hanno percepito il mio rancore, e soprattutto, se l’essersi sentiti rinnegati abbia influito sul verdetto del giudice?
Poi sono cresciuto e il rancore si è affievolito. Ho imparato ad apprezzare la semplicità di questo villaggio, di questa gente, ad apprezzarne la sincerità. A poco a poco, ho iniziato a sentirmi io stesso un disertore, un traditore del mio passato e di quella che, mio malgrado, è la mia gente. Certo, non tutto era stato tutte rose e fiori, e Eden mi aveva provocato un dolore che ancora oggi fatico a contenere, ma mi aveva temprato e, senza questa città, è probabile che non avrei mai ricevuto l’impulso di scrivere, che fino ad oggi mi ha salvato. L’esigenza di tornare nasce da lì, dal desiderio di redenzione, di scrivere un romanzo che dipinga Eden diversamente, con un occhio più maturo, più consapevole. Se quel manoscritto che era sulla mia scrivania quando mi arrestarono è ancora intatto, chiunque lo leggerà si accorgerà che quella che descrivo è una realtà diversa da quella di Figlio del nulla. Se lo leggesse un abitante di Eden, scoprirebbe cose su se stesso che neanche immagina. Ma sono arrivato tardi. Morirò come un traditore.
La verità è che non pago per il duplice omicidio di cui mi accusano. Io pago per una vita intera trascorsa a volere di più; pago ogni momento in cui, da adolescente, ho desiderato che Eden scomparisse; ogni momento in cui cercavo un pretesto per andarmene; ogni riga in cui ho ciecamente condannato questa città, senza rimpianto. Mi consola solo l’essere stato un artefice consapevole di ogni mio errore, capace non solo di scavarsi dentro, ma di interpretarsi e di giudicarsi, arrivando alle persone per quello che ero e non quello che volevo essere. Il mio obiettivo principale io l’ho raggiunto. Me l’ero promesso; poco dopo la morte dei miei mi dissi che sarei sopravvissuto a tutto e sarei diventato immortale, e nonostante tutto quello che mi hanno sputato addosso negli ultimi mesi, il mio nome, da qualche parte, rimarrà per quello che è stato: il nome di uno scrittore che ha lasciato una parte di sé su questa terra. Per quel poco che vale, la cosa mi consola.
Ecco Jack. Avevo ragione, l’intruglio è sempre lo stesso, ma il volto della mia guardia, per la prima volta, è triste. C’è qualcosa dentro quegli occhi burberi che io interpreto come compassione. La apprezzo, per quel poco che vale. Ora è finita davvero.
Mentre mi appresto a piegare questo foglio, ho un solo pensiero in testa: Eden, odiarti mi è costato la vita, ma è grazie a te se oggi sono immortale.