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  4. Viaggio intorno alle nostre camere

Introduzione

Si possono creare mondi possibili, nel nostro tempo reso sospeso e alieno da questa malattia subdola, riuscendo ad andare oltre la semplice raccolta diaristica delle nostre riflessioni e preoccupazioni? Si può scrivere un racconto che evochi ciò che stiamo provando durante l'epoca del Covid-19 senza doverlo necessariamente nominare?

A queste domande abbiamo cercato di rispondere nel breve corso di scrittura creativa che ho tenuto tra fine aprile e la prima metà di maggio con la partecipazione di sette studenti della Classe 2020 della nostra Scuola. Abbiamo letto alcune pagine da Viaggio intorno alla mia camera di Xavier De Maistre, che ha ispirato il titolo della presente raccolta, che ci ha dimostrato come la costrizione fisica - la reclusione forzata in uno spazio angusto - possa condurre ad un ampliamento della nostra immaginazione; abbiamo poi continuato con la lettura di racconti di Franz Kafka, Raymond Carver e George Saunders e ciascuno di loro ha fornito ai ragazzi consigli utili su come scegliere la voce narrante del loro racconto, il punto di vista da cui osservare la loro storia, la lingua da utilizzare per rendere efficace il loro messaggio. Trovate il risultato di questo loro lavoro qui di seguito e gli esiti sono sorprendenti.

La natura diviene insolita protagonista nei racconti di Lorenzo, Tommaso e Ulysse. Alberi, uccelli ed altri animali sono referenti con cui si trovano a dialogare i personaggi della loro storia, mettendo in crisi il concetto stesso di uomo d'oggi. Più riflessivi ed evocativi invece i racconti di Camilla, Virginia e Camille. I protagonisti delle loro storie sono giovani e adulti che vedono nella reclusione del tempo presente uno strumento in grado di solcare con profondità la loro identità. Infine, in "Immortale" Bojan racconta in poche pagine i successi e la miseria di un uomo e la chiusura forzata diviene elemento fortemente simbolico. Questi sette brevi racconti rendono evidenti la grande forza immaginativa e le brillanti qualità linguistiche dei nostri ragazzi. Spero vivamente che possano continuare a scrivere anche negli anni a venire.

Buona lettura.

Rossano Astremo

Occhi

Lorenzo

Vi guardavo, eppure voi non mi guardavate. O meglio sì, mi guardavate ogni tanto, ma non avevate mai tempo di guardarmi nel dettaglio, eravate tutti troppo impegnati a fare qualcosa. Vi davate da fare dalla mattina alla sera, chi per lavoro, chi per scuola, chi per occuparsi delle faccende domestiche. A tal punto che la stessa parola routine, che per molti di voi destava un significato negativo, o comunque una sorta di ambigua avversione, vi ha fatto dimenticare che la moltitudine di azioni che compievate quotidianamente facessero parte di un qualcosa di meccanico e sinistramente istintivo. Forse qualcuno ogni tanto mi lanciava un’occhiata, - anzi, un’occhiataccia stanca prima di andare a dormire - del tipo “non ti guardo perché sei bello, o perché ne abbia voglia, ma solo perché devo chiudere le maledette persiane per andare a dormire. E domani ricomincerò tutto da capo”. Ma io non dico di essere bello, non è questo il punto. Della palazzina 24, alla mia destra, e 26, alla mia sinistra, io scorgo tutto dalla mattina alla sera e voi neanche ve ne accorgete. Eppure ci sono.

Ormai, vi conosco tutti a memoria. Conosco le vostro abitudini, riconosco le vostre espressioni facciali, riesco addirittura a comprendere il vostro stato d’animo dalla disposizione degli oggetti nella vostra camera. Prendete la donna anziana della terza finestra del secondo piano della palazzina 26 - oggi ha dimenticata lo stendino fuori dal balcone per preparare il pranzo, e adesso piove. Lei è pensierosa come al solito, ma l’amante più giovane non ci fa troppo caso, o almeno così mi pare di discernere dei leggeri sintomi di preoccupazione sul suo volto. La ragazza del quarto piano della palazzina 24, invece, adesso non fa entrare il cane nella propria camera perché ha dormito male, e pensa che il cane ne sia responsabile. La casalinga del primo piano adesso, invece, si accinge a bere un bicchiere d’acqua fredda dopo aver spazzato il corridoio e l’ingresso. Il lavoratore della porta accanto si è già addormentato, pensate che sono solo le 20.30, ma lui non ci fa caso, il giorno dopo si sveglia alle 5.00. Il figlio, il quale pensava invano di poter trascorrere un po’ di tempo con il padre, adesso calcia un vecchio pallone al muro: forse i vicini si lamenteranno di nuovo, chissà. 

È da un po’ di tempo, però, che le vostre abitudini sono cambiate, e parecchio. Le macchine non passano più da molto, ne passa solo qualcuna ogni tanto - e chiaramente, per situazione di assoluta necessità - per andare a fare la spesa, per andare al supermercato, insomma, questo già lo sapete. Ma quello che non sapete, o di cui non siete ancora al corrente, è che il vostro modo di pensare è cambiato drasticamente. Certo, succederebbe a chiunque venisse rinchiuso in cento metri quadri per più di due mesi, ma la mia voce da signor Albero che avete sempre rinnegato, in questo caso, assume un significato sostanzialmente diverso. La voce di chi era stato dimenticato per anni, per così tanto tempo, come un libro polveroso nascosto dietro qualche cassetto, e poi improvvisamente ripescato con gioia e curiosità. E sapete perché? Perché adesso, alla fine dei conti, non siamo così diversi. Io rimango qua, piantato tra due mondi similmente diversi non per scelta personale, e anche voi siete chiusi in casa, non per scelta. 

Molti di voi, finalmente, si sono resi conto che anche gli oggetti inanimati, in fin dei conti, possono assumere voci anche più autorevoli degli oggetti animati che siete sempre stati abituati a rincorrere tutti i giorni, tutti gli anni, ma di cui adesso siete stati privati completamente. Questo periodo vi ha fatto riscoprire le incommensurabili ramificazioni di possibilità del semplice - e per semplice non intendo triviale o comunque privo di complessità, ma l’ampia categoria di cose, oggetti, pensieri che davate per scontato prima, e che adesso rivestono un'importanza fondamentale, quasi cardinale, della vostra esistenza. Considerate, ad esempio, il ragazzo davanti a me nel secondo piano della palazzina 24, che in questo preciso istante si cimenta a scrivere qualcosa al computer. Mi guarda con agitazione e ammirazione mescolate in fantasia mentre i suoi polpastrelli si preparano a digitare una serie di lettere della tastiera del computer. Pensate che adesso, proprio sul suo letto, si trova una vecchissima chitarra classica dei tempi di sua madre, quando quest’ultima aveva quindici anni circa, e che era stata chiusa nel soppalco del secondo piano della palazzina 24 da anni. Adesso, invece, la chitarra è pulita e accordata e il primo pensiero del ragazzo, appena si sveglia la mattina, è di riportarla alla vecchia gloria, promettendosi di imparare qualcosa di nuovo tutti i giorni. Vicino al letto, invece, sul mobile sopra al televisore, si trova una piccola massa di libri che il ragazzo non aveva mai avuto tempo di leggere. Accanto alla porta, ha disposto una serie di oggetti tra cui zaini, bottiglie, e un manico di acciaio staccato da una vecchia aspirapolvere per costruire una palestra improvvisata. E tutte le mattine, dopo avere suonato la chitarra fino a che gli cedono le dita, si immerge così pienamente nell’usare quel vecchio manico di aspirapolvere e quegli zaini che, a loro volta, hanno mille storie da raccontare se solo uno ne ha il desiderio e l’attenzione per farlo. E cosa farebbe adesso il ragazzo se gli levassero quella chitarra, quegli zaini e quel vecchio manico di acciaio che per anni non hanno visto la luce del sole? Probabilmente impazzirebbe. Prima, neanche era al corrente della loro esistenza.

Ed è proprio su questo che mi voglio soffermare. Per quanto lo avrete sentito ripetuto in televisione, o in radio, o da qualche parente che prima neanche sentivate (sì, perché anche questo avete scoperto): avete imparato a riflettere. E per riflettere non intendo il pensare dalla mattina alla sera o l’immergersi in una serie di complessi aristotelici, bensì il sapere compiere una transizione impensabile mediante la scoperta di sé stessi e - addirittura - della propria camera, in circostanze in precedenza impensabili. Perché, dove il corpo è costretto, la mente vaga. Quasi tutti gli abitanti della palazzina 24, e la maggior parte della palazzina 26, si soffermano oggi a guardarmi. Hanno notato i miei cambiamenti nei minimi dettagli, hanno visto com’ero spoglio prima della quarantena, neanche una foglia o un ramoscello verde, per finire invece colmo di foglie a tal punto che alcuni abitanti della palazzina 24 hanno dovuto tagliarne alcune. Avreste dovuto vedere le loro facce, anzi, la loro inverosimile attenzione nel notare le mie foglie germogliare da un giorno all’altro, per la prima volta da quando mi hanno piantato nel 2010. Il ragazzo della chitarra classica, addirittura, si è messo a disegnare un mio ritratto e tutti i giorni gli abitanti, a orari alternati, sono soliti passeggiare intorno al cortile, soffermandosi spesso a guardarmi o addirittura a toccarmi. 

È questo il punto. Voi vi fermate a guardare, finalmente, un qualcosa che avete tralasciato per anni riveste per me un'importanza fondamentale, desta speranza. Vi fa capire che, alla fine del giorno, proprio come le foglie della natura crescono, cadono e si rigenerano sulla base di un ciclo annuale, anche voi, passatemi l’azzardo, siete riusciti a germogliare in questo periodo. Pensateci un attimo: cosa vi ha fatto scoprire questo imposto legame con voi stessi? Chi eravate prima, e chi siete adesso?

La ghiandaia

Tommaso

Un fascio di luce gialla filtra attraverso lo spiffero di una finestra socchiusa e, nel suo piccolo, illumina una stanza buia, interrompendo i miei sogni. Difficile ricordare da quale realtà il bagliore mi avesse tirato fuori, ma improvvisamente mi sono ritrovato da solo nella mia stanza con lo sguardo rivolto verso il soffitto ed il corpo ancora immobile sul letto. Un sospiro profondo mi dà le forze necessarie per avanzare faticosamente verso le sbarre di quella maledetta finestra, che lascia entrare aria fresca in una stanza che puzza di chiuso. Mi risiedo sul letto e guardo attraverso quel rettangolo ciò che oggi è al di fuori della mia stanza, con lo sguardo perso di chi si è appena svegliato e si trova ancora in uno stato di transizione, tra la veglia e il sonno.

D’improvviso, un uccello si adagia sul mio balcone e mi sveglia in maniera definitiva.

Ci fissiamo per qualche momento, io osservo quei piccoli occhi neri inespressivi, e lui osserva il mio sguardo; da un movimento brusco della piccola testa rotonda intuisco che mi considera un predatore, di quelli che aspettano solamente un suo passo falso per azzannarlo. Faccio per spostarmi e lui, intravedendo una minaccia inesistente nel trascinarsi di un adolescente, defeca e precipitosamente vola via.

Con lo sguardo rivolto verso dove pochi attimi fa è scomparso un piccolo pennuto, struscio con i piedi fino ad arrivare a quella finestra che mi fa da portale per vedere il mondo esterno, e appoggio i miei avambracci su quelle sbarre, di norma pensate per tenere fuori i ladri, ma che oggi tengono me rinchiuso qui dentro come un prigioniero.

Poco lontano, sull’unico arbusto ancora spoglio, vedo disteso su un ramo lo stesso uccello. Canticchia e fischia, come se cercasse di avvisare l’unico albero rimasto ancora brullo, ed incitarlo a tirare fuori delle belle foglie verdi su dei nuovi rami esili, con cui il prossimo anno potrà costruire il suo piccolo nido. 

Catturo con lo sguardo, attraverso il piumaggio marrone e nero, un riflesso blu celato tra le ali riposte al suo fianco, e realizzo che quell’uccello è una ghiandaia. Allora contro ogni logica, la mia mente mi riporta alle lezioni di geo-storia delle medie. Pensandoci bene, di quella classe ricordo di tutto, persino delle ghiandaie, ma niente che si relazioni alla geografia o alla storia; evidentemente anche da piccolo la mia mente riusciva a viaggiare al di fuori di quella classe noiosa, specialmente mentre spiegava l’insegnante, ed anche oggi dalle comodità della mia stanza, la mia mente riesce a portarmi al di fuori di queste quattro mura che mi rinchiudono. La mente mi riporta allo studio della routine giornaliera della ghiandaia, della sua tendenza a sotterrare ghiande per nasconderle nel terreno fertile, per poi poterle mangiare durante l’inverno, allora comprendo che, senza esserne cosciente, questo uccello ha avuto uno scopo preciso; le ghiandaie, piccole ed insignificanti come sono nel grande schema delle cose, hanno contribuito all’espansione di foreste di grandi alberi come querce e castagni. Ed allora io, piccolo ed insignificante come sono in questo mondo così globalizzato, intrappolato nei confini della mia stanza, mi chiedo che scopo ho.

Mi risiedo sul letto, senza distogliere lo sguardo dalla finestra, sperando che qualche uccello, piccolo e grazioso, entri nella casetta che avevo costruito ed appeso su un albero da frutta usurpato dai becchi di coloro che tutte le mattine mi fanno una breve visita, prima di volare via. Chissà dove vanno quando volano via e non tornano più dopo essere scomparsi dietro ad un muro di mattoni rossi, chissà se hanno una meta precisa, o sono solo in cerca di un po’ di cibo altrove poiché il mio giardino ne è sprovvisto. Anche io sono costantemente in cerca di qualche cosa. Seduto, sdraiato ed in piedi nella stessa stanza per più di due mesi, ho avuto molto tempo per riflettere sul passato, il presente e il futuro, e l’unico momento in cui riesco a capire cosa cerco veramente è quando, di giorno, mi butto sul letto e fisso il soffitto. Con lo sguardo posato sempre sulla stessa macchia nera, mi domando come ci sia arrivata lì su. Inizio sempre così, poi la macchia scompare, ed io pure mi dissolvo nell’aria che mi circonda, una stanza vuota ricca di pensieri e di domande. Desidero avere uno scopo, proprio come la ghiandaia, ma a differenza di questo uccello non mi posso accontentare di non sapere quale sia. Necessito uno scopo, anche se effimero, poiché senza uno scopo posso solo diventare un individuo passivo del sistema, un vagabondo, come un uccello nato da poco che si è perso, ma non sa ancora di aver smarrito la propria dimora.

Non sento più canticchiare, non la vedo più, e allora realizzo che in un atto non consapevole ho trascorso gli ultimi minuti a fischiettare una lieve melodia in risposta ai richiami della ghiandaia. Contemporaneamente, il mio canto viene interrotto da mia madre che dal piano inferiore urla: “Smettila di fischiare Tommaso!”.          
     
“Scusa Mamma.”

Scuotendo improvvisamente la testa, scaccio questi pensieri e vado verso l’uscita della stanza, pronto a iniziare questa ennesima giornata di quarantena.

Il riflesso dei giorni

Camilla

Non si alzava. Restava lì, immobile sul suo letto, con le braccia stese accanto a sé, mentre nel silenzio assordante si incuriosiva ad osservare ogni dettaglio e imperfezione nelle passate di vernice usate per dipingere il suo soffitto bianco. L’orologio girava, i minuti passavano, e le luci della camera rimanevano accese tutto il giorno, mentre il sole splendeva sopra il tetto mansardato che imprigionava il buio nella stanza. Marco, questo è il suo nome, ogni tanto cambiava posizione, allungando il braccio alla sua sinistra per prendere il telefono sul comodino accanto al letto. Si teneva in contatto con i suoi amici, controllava se qualche professore avesse assegnato dei compiti, e guardava ripetutamente il calendario, nella speranza di uno spostamento rapido del pallino rosso che indica la giornata. Senza ricavare alcuna soddisfazione dalle notizie dei quotidiani online, posava il telefono e voltava la testa verso destra, fissando la parete ricoperta di foto, quella sopra la scrivania. Saranno state almeno un centinaio di immagini, alcune con gli amici, altre dei suoi viaggi, oppure i campionati di calcetto vinti e, in basso, posate sopra la scrivania, ammirava le sue coppe, le sue medaglie, i suoi certificati. Sulla parete davanti al letto vi erano tre mensole bianche, dove si posavano un paio di libri, le chiavi di casa, e alcuni panni sporchi, mentre accumulate in un angolo della stanza vi erano numerose paia di scarpe, che lo attendevano per essere sistemate nella scarpiera, come anche il suo giubbotto, ancora appeso al manico della porta. 

Un pomeriggio, sempre steso sul letto, Marco si girò su un fianco, guardando il comodino con sopra il suo telefono, ma invece di allungare il braccio, rimase fermo con lo sguardo fisso su quel comodino di legno di castagno. Si tirò su con un braccio, mettendosi seduto sul bordo del letto. Adesso il suo sguardo era perso. Con le mani in mano, i capelli spettinati, e la stessa tuta da tre giorni, iniziò a curiosare con gli occhi tra tutti gli oggetti intorno a sé, fino a quando non si fermò a guardare la finestra. Dal tetto mansardato, un piccolo raggio di sole era riuscito a fuggire, penetrando nella sua stanza, ed illuminando una piccola parte del parquet, che aveva assunto un colore totalmente diverso, più acceso, più vispo. Fu proprio quello il momento in cui Marco decise di crearmi. Preso da un energia scomparsa ormai da giorni, si mise in piedi e sistemò il letto, stirando le lenzuola e sbattendo i cuscini. Quando si diresse verso la scrivania, cerco dei fogli di dimensione A4, e molti colori, un righello, una matita ed una gomma. Poi una spillatrice, con cui mi diede il tocco finale spillando tutti i fogli insieme. Ognuno di essi conteneva i giorni del mese stabilito, ed infine mi appese sull’armadio, esattamente davanti al letto, così che ogni sera, prima di andare a dormire, potesse segnare il giorno passato, e mentre si addormentava, guardava il giorno che avrebbe affrontato la mattina dopo. 

Da quel giorno in poi la quotidianità nella stanza di Marco cambiò. Al risveglio seguente, dopo essere tornato dalla colazione, raccolse un paio di pantaloncini da calcio, che si trovavano per terra sul lato destro del comodino, insieme ad una maglietta bianca delicatamente posata sulla lampada sopra di esso, continuando così per tutti i panni sporchi della stanza. Dopo averli buttati nella cesta accanto alla lavatrice nel corridoio, fissava con le mani sui fianchi le tre mensole davanti al letto, ormai semi-vuote, e libere dai calzini sporchi. Uscì dalla stanza, e quando tornò aveva con sé uno straccio, con il quale diede una spolverata alle tre mensole. Si voltò ed andò nella direzione della scrivania. Notai un'espressione insolita sul suo volto. Lo vidi lasciare lo straccio e posare una mano sul pavimento, per chinarsi sotto il tavolo bianco e risalire con una chitarra classica in mano, con un lieve sorriso che ricordava quello di un bambino. Impugnando lo strumento come per suonarlo, si diresse di nuovo verso il letto, con gli occhi puntati sulle paletta e le chiavi. Una volta seduto si mise ad accordarla, sfiorando delicatamente le corde per sentirne il dolce rumore, impiegando poi il resto del pomeriggio a ricordare diverse melodie, che sembrava conoscesse già, mentre sul volto teneva uno sguardo concentrato e perduto nel suono. Le giornate passavano così, e di tanto in tanto Marco tornava su in camera con dei libri nuovi, che riusciva a leggere in un arco di tempo molto breve, sfogliando le pagine di carta una per una. Una volta finito un romanzo, questo prendeva posto su una delle tre mensole, ormai quasi piene di libri. Con questa nuova struttura nella quotidianità di Marco, ogni volta che mi osservava notava la velocità con cui scorrevano le sue giornate. Nulla a che vedere con il pallino rosso del calendario telefonico.

Il fine settimana era il periodo in cui Marco apprezzava di più la mia presenza. Specchiarsi era una mania di tutti i giorni, ma per le sue uscite serali passava le ore di fronte a me per decidere cosa indossare, come sistemare i capelli, la sua più grande fissazione, assumendo un comportamento che rispecchiava più il carattere stereotipato di una ragazza, rispetto a quello di un ragazzo liceale. Ogni volta, dopo essere uscito dalla doccia, rientrava in stanza avvolto da un asciugamano bianco, mentre con un altro più piccolo si asciugava i capelli e tamponava il volto. Chiudendo la porta voltava la testa verso destra per controllare se il deodorante si trovava sul comodino accanto al letto e, dopo averlo preso, si incamminava verso di me, accanto alle tre mensole bianche. Ogni tanto si sentiva bussare, e solitamente era Giulio, il fratello minore di Marco, che lo stimava tantissimo, ma purtroppo i sei anni di differenza hanno sempre avuto il loro peso. Dopo aver bussato, Giulio apriva delicatamente la porta, affacciando metà testa nella stanza. Le domande poste al fratello maggiore erano semplici, come un “Che fai?” oppure un “Posso stare con te? Mi annoio”, ma Marco si limitava a rispondere bruscamente, o direttamente a cacciarlo via, mentre infilava il paio di pantaloni con il quale sarebbe uscito. Una volta rimasto solo, ed in seguito a numerose spruzzate di deodorante, passava ai capelli, castani e lunghi abbastanza per essere continuamente pettinati, anche semplicemente con le mani. Poi si dirigeva verso l’armadio, dal quale si potevano vedere una quantità infinita di indumenti. Solitamente tirava fuori una camicia ed una maglietta, trasformandole in due possibili opzioni da indossare sopra il pantalone scelto. Indossava sempre entrambi i pezzi prima di stabilire quello definitivo e spesso il processo si ripeteva svariate volte, fino a quando non afferrava il giubbotto, staccava il telefono dalla carica, ed usciva dalla stanza, lasciando il disordine a dominare lo spazio.

Il suo aspetto durante i giorni trascorsi nella stanza degenerava continuamente: i capelli diventarono lunghi ed ingestibili, la barba era nera ed incolta, e due grosse occhiaie delineavano il viso del ragazzo; fino a quando non appese il nuovo calendario sull’armadio. Fu allora che lo vidi rientrare in stanza con un grosso asciugamano bianco avvolto intorno a sé, con la barba tagliata, e due occhiaia meno incise sul viso. Il giorno seguente, la scena fu ancora più insolita. I due fratelli si erano riuniti nella camera, e seduti a gambe incrociate sul pavimento di fronte a me, tirarono fuori una macchinetta per tagliarsi i capelli. Il primo ad andare fu Giulio, il quale si fece tagliare i capelli dal protagonista. A quel punto, Marco si spostò in ginocchio dietro di lui, accendendo il dispositivo dopo aver attaccato la spina, iniziando il taglio e lasciando, a lavoro concluso, una cresta al centro della testa di Giulio. Dopo spinte e insulti mischiate con risate, era il turno di Marco. Giulio si spostò a sua volta dietro di lui, accendendo la macchinetta, e cominciando il taglio, rasandogli l’intera parte centrale dei capelli. I due risero come bambini. A quel punto, Marco si alzò dirigendosi verso il comodino e prese il telefono, ma questa volta non era per sentire degli amici, per controllare i compiti, o per controllare il calendario, ma per scattare una foto con il fratello. Alla prima occasione, ne avrebbe stampata una copia da appendere nella sua camera. In fondo, non era così male avere un fratellino tra i piedi!

L’attrazione

Ulysse

Il giorno dei festeggiamenti è arrivato per questa piccola città. I passeri e le rondini sono i primi a caccia di colazione. Senza sforzo trovano qualche bruco o verme e con soddisfazione lo riportano al proprio nido per sfamare la famiglia, che include nipoti, zii e nonni, migrati da lontano per partecipare a questa speciale giornata. Dai boschi, le mamme lupo ed orso ritornano con le loro prede notturne. Perfette per i loro cuccioli appena nati. Sugli alberi scimmie si prendono cura a vicenda, cercando piccoli pidocchi negli scalpi dei propri vicini. Uno spuntino improvvisato che dovrà durargli fino a pranzo. In un piccolo buco nel suolo una famiglia di topi condividono i resti della cena precedente. Alcuni gechi aspettano a bocca aperta sotto un nido di merli pieno di uova, nella speranza che qualcosa possa cadere. Al centro della città la sindaca farfalla preannuncia gli eventi della giornata. Tutti i cittadini ascoltano in silenzio, poi riprendono le loro attività. Alcune formiche formano una catena di montaggio dal buco dei topi fino alla loro piccola casa, trasportando briciole di pane cadute dalle mascelle dei roditori. In cielo le cornacchie dibattono mentre aspettano il momento esatto per attaccare la loro preda. La coccinella assistente della sindaca suona un campanellino per indicare la fine della colazione e così l’inizio della giornata festiva. Aveva trovato questo mestiere grazie ad una raccomandazione di suo cugino grillo. Da sempre non riusciva a fare altro che desiderare di essere come la farfalla. Grande, di mille colori e inequivocabilmente potente. Sognava di diventare sindaca ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscita. Per diventare sindaci una trasformazione era necessaria. Il bruco era l’unico animale capace di quella trasformazione e per questo da anni le farfalle dominavano la politica. Ognuna regnava poco, un giorno o due, ma una catena di bruchi erano pronti a sostituirla. La sindaca era sempre accompagnata da un gatto, che le serviva da guardia del corpo ma anche da intrattenitore per la sua breve vita. Il gatto raccontava barzellette che però raramente venivano comprese. Dopo la campanella della coccinella, molti dei cittadini lasciano i propri neonati alle api-sitter, che come pagamento accettano solo fiori e procedono verso la fiera al centro della città. Alcune lucertole giocano a “mosca cieca”, un semplice gioco in cui due partecipanti vengono bendati e poi utilizzando soltanto la propria lingua devono riuscire ad arraffare una mosca legata ad un filo. La fila per questo gioco è popolata da numerose specie di rettili desiderosi di conquistare il titolo di lingua più agile del west. In un’altra sezione due api regine si scontrano in un match di boxe fino alla morte. Il vincitore prende possesso dell’alveare dell’avversario. Su dei piedistalli delle volpi si preparano a giocare a battaglia navale utilizzando ratti come missili. In fondo alla fiera, scorpioni ed aragoste preparano drink per i cittadini. Ne fanno di ogni tipo, per ogni specie, senza eccezione. Poi sulla destra del bar, la nuovissima attrazione, ormai famosa grazie all'ampia pubblicizzazione compiuta dai cani. L'attrazione è una grande finestra che consente al pubblico di vedere ciò che si cela dentro una piccola gabbia. Nessuno sa chi o che cosa la abita, ma i serpenti, i cittadini tra i più ingegnosi della città, pensano sia un sopravvissuto della grande epidemia. Alcuni passanti fissano il vetro da vicino ed altrettanti aspettano il proprio turno per poter dare uno sguardo alla creatura. 

Dalla stanza poco è visibile del mondo esterno. Non abbastanza per intrattenere chiunque, io però sono soddisfatto. I piccoli passanti, le storie che vagano assieme a loro nell’aria trascinate come palle di ferro attaccate ai piedi di carcerati. Pochi spunti di verde, ed un cielo chiaro sputato con nuvole desolate che lentamente contribuiscono alla creazione del quadro espressionista che è quella finestra. Ogni tanto un piccione atterra sul davanzale e sbircia attraverso il vetro. Poi sparge le ali ma non decolla, qualcosa in quella stanza lo trattiene, forse lo disturba. Istintivamente finisce per raggrupparsi con i suoi coetanei. Non so a che mondo sono destinato, non so se ci sarà un mondo a cui essere destinato. Il tempo si torce e contorce a proprio piacimento lasciandomi vittima di questa sua elasticità. Sì, questo tempo ha perso la propria funzione, sostituita dal meccanico sorgere e calare del sole. Nella stanza una vecchia radio emana un suono granulato di un pianoforte: lo “Scherzo” di Liszt. Rapito dalla musica, inizio a girare su me stesso al centro della stanza. Testa alta verso il soffitto, sguardo fisso su un punto preciso, braccia penzolanti che con l’accelerare della rotazione del busto diventano eliche che fanno spiccare in cielo i miei pensieri. Il solista riesce ad evocare malinconia ed eccitazione che mano a mano si trasforma in desolazione, come un pianto in completa disperazione. Le note sono attente, precise e violente. Desiderano essere accompagnate, ma scoprono di essere condannate alla propria solitudine. Mi fermo. La testa mi gira, le gambe mi tremano, lacrime tracimano dagli occhi. Sorrido maliziosamente, non so se per nascondere il dolore o per esprimere il furore. Rido contagiosamente, senza fermarmi, sempre più forte sempre più disturbante. La risata si trasforma in un urlo, furioso e perduto. Dopo quest’attimo di sollievo, il silenzio si impossessa della stanza. Come un corpo senza forza mi accascio sulla sedia di legno della scrivania. Mi guardo allo specchio e mi sistemo i capelli.  Prendo un foglio da disegno e una matita B2. Uso solo quelle per i disegni che faccio per me stesso. Amo la viscosità della grafite che lascia linee scure e dense. Preso da un semplice attimo di ispirazione inizio a disegnare. La mia mano mi conduce dolcemente, e piano piano le sagome si fanno più definite. Senza pensare finisco uno schizzo dell'idea ed inizio a colorarlo con dedizione. L’intero foglio è avvolto in una nebbia grigia con sfumature arancioni. Il primo piano è dominato da una serie di rami lunghi conficcati nel suolo, posti a semicerchio. Al centro c'è un uomo in ginocchio. Giovane, vestito in abiti tradizionali giapponesi. Sui rami appaiono delle sagome, sono figure penzolano senza vita trafitte dai rami. Il giovane ha una piccola lama di acciaio. Si possono notare delle venature ondeggianti sul metallo che indicano la maniera in cui è stata forgiato. La lama è puntata verso se stesso e sembra chiaro che il giovane stia facendo un grande sforzo per poterla fare entrare nel proprio corpo. Ho terminato il disegno. 

Tutti i cittadini della città sono ormai affacciati per poter vedere ogni sua mossa. Tutti come intorno ad un fuoco osservano questa creatura curiosa. Non comprendono la sua funzione né la ragione della sua esistenza. Sono agganciati a questa nuova forma di intrattenimento. Fino a tarda notte gli abitanti della città osservano attentamente la creatura apparentemente capace di ogni cosa, ma allo stesso tempo confinata in un mondo surreale. Inizialmente ammirano la creatura, poi la deridono ed infine la trovano noiosa e deludente.

Ormai il mandato della sindaca è quasi concluso. La farfalla è fragile, ma prima di morire chiede un favore alla coccinella. Inizialmente l'assistente rifiuta ma finisce per farsi convincere. Così la sindaca farfalla muore durante il suo ultimo pasto, banchettando nella visione di quella affascinante creature.

Camere

Virginia

Le loro urla mi raggiungono fino in camera. Lascio che il mio corpo cada sul letto rifatto a peso morto, portando un cuscino sopra la testa, tentando il più possibile di filtrare i suoni esterni. Non voglio sentire più niente, solo silenzio. Inizialmente non è stato facile adattarsi alla nuova vita alla quale siamo stati sottoposti; quando guardavo fuori dalla finestra e vedevo la natura che pian piano si riprendeva ciò di cui era proprietaria ero felice, ma quando mi ricordavo di essere prigioniera della mia stessa casa allora mi sentivo soffocare, come se la mia vita precedente stesse precipitando nell’abisso più profondo del mare e io con essa. Non mi sento più la me stessa di qualche mese prima; mentre un tempo il mio umore veniva reputato stabile e affidabile da coloro che mi conoscevano, ora fluttua tra alti e bassi ogni ora di ogni giorno, come se stessi su una montagna russa, senza l’adrenalina nelle vene. Ogni giorno passa senza inizio e senza fine, come se il tempo non conti più niente, che per una come me -prigioniera della routine quotidiana - non è il meglio. Sono diventata irascibile, come il resto della mia famiglia, e nonostante siamo solo in quattro a vivere in una casa spaziosa i litigi non tardano ad arrivare. La situazione degenera ogni giorno di più…

Lo sbattere di una porta mi riporta sul mio letto, lo stesso su cui ho dormito, pianto e riso negli ultimi mesi. Lo stesso letto che, puntualmente, rifaccio ogni singola mattina, dopo essermi alzata, per dare un senso alle mie tediose giornate che sono tutte uguali. Quando appoggio il cuscino al suo posto, le urla sono terminate e il silenzio regna nelle profondità dell’appartamento, un silenzio opprimente che segna il termine di una discussione intensa. Mi siedo sul letto guardando fuori, osservando la vita all’esterno, ricordandomi dei momenti passati fuori di sera, ballando e ridendo con gli amici, le estati passate da Nonna nella campagna rurale italiana. Ora, solo ora, mi rendo di quanto fossi felice, felice di vedere i miei amici e la mia famiglia, felice di andare a scuola, felice di vivere. Ragiono sulla situazione corrente e mi domando se e quando tornerà tutto come prima, quando tutto era più facile, quando vivevo la mia vita liberamente. Il quadro su tela che mi trovo di fronte attira la mia attenzione, noto come sia l’aggiunta perfetta al design della mia camera, come le sfumature di viola dei fiori dipinti, dal porpora intenso al lieve lilla, si amalgamano in modo armonioso con le pareti. Noto la firma dell’artista nell’angolo in basso a destra: Jason. Per un istante sembra un dettaglio irrilevante, mi sto quasi alzando dal letto per proseguire con le attività monotone della quarantena, fino a che non mi accorgo dell’importanza di quel nome. Quelle lettere nere disordinate donano un non so che di diverso al quadro…

Quando ritorno in me, la stanza non è più la stessa. Le pareti appaiono bianche e spoglie, il sottofondo più rumoroso (principalmente clacson accaniti delle automobili) e la stanza disordinata e vasta. Il quadro però, rimane lì, appeso alla parete, la sua bellezza indifferente al cambiamento del contesto. Vedo la mia scrivania vecchia, accanto alla libreria contenente tutti i miei quaderni delle medie, fogli vari risalenti a diversi anni precedenti che mia madre insisteva tenessi “in caso mi dovessero tornare utili,” anche se era certa che le schede della terza elementare sulle tabelline non mi avrebbero mai più aiutata. I raggi del sole caldo di maggio penetravano attraverso la finestra vecchia, contornata da un legno caldo malandato, sentivo tutto ciò che proveniva dalla strada, dai cani abbaianti alla conversazione tra due signore di età matura riguardo al meteo. Il mio zaino vecchio ancora da disfare, classico posizionamento del venerdì pomeriggio quando, tornata da scuola, non vedevo l’ora di lasciare da parte le lezioni e i compiti per buttarmi a capofitto in un libro, poi rimpiazzato da una serie televisiva con l’incrementarsi delle popolarità di Netflix. Ancora una volta riesco a sentire le voci dei miei che aumentano e pian piano diventano irriconoscibili ma non me ne faccio un problema; tante volte era accaduto prima e niente era successo di conseguenza; un po’ di distanza l’uno dall’altra e sarebbe tornato tutto alla normalità. Sento il lamento del mio cane provenire dal corridoio che porta alle camere da letto dei miei e di mio fratello passando per il bagno, così gli apro la porta per farlo entrare, la sua presenza mi rassicura. Lo faccio sedere ai miei piedi mentre mi appoggio sul pouf bianco di pelle nel mio angolo preferito della stanza, provvisto di sedute e tavolino ma anche di un mobiletto contenente svariate profumazioni di candele, una per ogni ambiente possibile immaginabile. Mentre accarezzo Marley, decido di accendere una candela, così apro lo sportello del mobiletto bianco e ne prendo una a caso, lasciando che si sciolga sotto la fiamma dello stoppino. L’aroma di fiori di gelsomino appena raccolti misto al sandalo invade la camera quadrata, donandole una sensazione completamente diversa. Accanto a me il letto singolo attaccato al muro non è rifatto, il che mi dà un fastidio tale da farmi alzare per rifarlo; le lenzuola profumano di bucato e mettono in risalto la struttura di ferro arricciato bianco dello scheletro del letto, grazie al contrasto tra la stampa floreale e il ferro stesso. Quel letto mi aveva accompagnato attraverso diversi avvenimenti durante il corso della sua vita. Mi ricordo ancora il momento in cui lo montai per la prima volta insieme a Mamma… 

La camera più grande della casa in stile inglese nella parte più a ovest della metropoli di Londra è ancora vuota per la maggior parte; gli unici pezzi di arredamento degni di nota sono i materassi gonfiabili sui quali abbiamo dormito io e mio fratello dal giorno del trasloco e la cesta di peluche che collezioniamo da anni. Finalmente anche il mio letto è arrivato, quindi corro di sotto, cercando gli attrezzi necessari per montare il mio nuovo letto. Quando lo estraiamo dallo scatolone non vedo altro che degli enormi pezzi di ferro bianchi assieme a delle aste di legno; la mia controparte di dieci anni non comprende ancora il senso dei pezzi singoli, ma si fida di mamma per fare il lavoro. Quando ritorno in camera il letto è pronto, completamente montato e rifatto, ma le lenzuola sono diverse, più infantili, e uno dei miei peluche preferiti giace sul piumino poggiando la testa sul cuscino. Decido di sedermi, prendendo il mano il peluche e portandolo al viso, per annusarlo. Sono sola in camera nonostante debba condividerla con mio fratello, il che al tempo non mi ha resa incredibilmente felice: ma era il piccolo prezzo da pagare per dormire nella camera più grande della casa. I miei genitori mi hanno sempre dato tutto ciò di cui avevo bisogno, per di questo ne sono molto grata. L’orsetto odora di profumo spray per tessuti, probabilmente per merito di mia madre, il che mi sorprende viste le vicende che questo ha passato. Quando ricevetti per la prima volta il peluche avevo soli sette anni…

Papà suona il campanello del modesto appartamento situato nel quindicesimo arrondissement di Parigi. Mamma gli apre e poco dopo sento qualcuno bussare alla porta della mia camera, un’oasi rosa per bambine, e lo faccio entrare, lanciandomi addosso a lui dopo aver passato solamente tre giorni in sua assenza. Lui lascia cadere le grandi buste a terra, mi prende in braccio e rimango lì, avvinghiata a lui per due minuti. Fa strano rammentare come mio padre non usasse viaggiare così frequentemente. Tre soli giorni, quindi, sembravano due settimane; oggi è divenuta talmente un'abitudine che a volte non mi accorgo della sua partenza. Quando mi lascia per terra, si abbassa per pescare qualcosa da una delle tante buste che giacciono sulla moquette. Così, estrae un orsetto di peluche, il più bello che abbia mai visto, vestito in modo impeccabile, con la pelliccia soffice di un color miele chiaro, e indossa una t-shirt con la scritta Welcome to Lisbon in un corsivo elegante sul petto. Ringrazio Papà e mi porto l’orsetto al petto, pensando ad un nome appropriato mentre l’abbraccio forte, prima di trovargli uno spazio sul davanzale della grande finestra che dà sulla via principale, Rue Lecourbe. Girovago intorno alla mia camera vecchia, ricordando dei primi momenti passati in questa stanza, il primo trasloco, i pianti sul davanzale della finestra quando volevo tornare indietro, la sensazione di tristezza che mi inondava ogni volta che vedevo nuvole grigie che si diffondevano nel cielo parigino. Col tempo, imparai ad amare quella vita e, per quanto possa ricordarmi delle mie emozioni a otto anni, ero felice. C’era felicità nell’infanzia, nel non dover pensare a niente tranne che a divertirsi, nell’andare a scuola e incontrarsi al parco con gli amici nel pomeriggio… 

Un passato scheggiato

Camille

La donna, impaziente, sistemava il suo taglio corto. Respirava profondamente mentre la sua mano si poggiava sulla maniglia dorata della porta della sua stanza. 

Dopo un lungo respiro si fece coraggio e aprì la porta. La luce di mezzogiorno entrava nella stanza, spezzando il colore scuro della pittura scelta da sua madre.

Il suo corpo sproporzionato la faceva sentire disagiata in molti contesti, ma non si aspettava di avere quella stessa sensazione in un luogo simbolo della sua adolescenza. 

“Saranno stati dieci anni”.

Era partita per trovare la sua vocazione all’estero, viaggiando dal Cile all’India. Aveva esplorato i confini del mondo, eppure non riusciva a capire quale fosse il suo ruolo su questo pianeta. Dopo una serie di crisi personali, ovvero una relazione insoddisfacente e la perdita del suo lavoro come giornalista, il padre l’aveva convinta a “ritrovare le sue radici”. E quindi dopo quei tanti anni lo aveva fatto, era finalmente tornata a casa. 

La donna si avvicinò alla libreria sovraccarica di libri di fiabe e di geopolitica, libri dimenticati dopo la loro prima tentata lettura. Poggiò il dito su uno scaffale tracciando un linea nella polvere. Quella stanza ospitava molti oggetti abbandonati, la rendevano carica di nostalgia, un sentimento che si vedeva nella luce che separava la stanza con quella vivacità di speranza, una tonalità accogliente che dava vita al legno che la circondava. I tanti colori della camera intrappolata nei viaggi di sua madre la scaldavano ancora a prima vista. 

Si appoggiò a quel letto antico, l’opera centrale della stanza ed una delle gemme dei suoi genitori, trovato in un negozio di antiquariato nascosto nei vicoli di Roma. Una barca in legno scuro che era stato portato dalla Cina, dove apparteneva ad una folta foresta, forse di montagna, dove il freddo aveva inciso il suo tronco con profonde ferite che sarebbero rimaste come cicatrici, segnando questo suo passato in una terra lontana. 

Sembrava che gli oggetti di questa stanza si rimpicciolissero oppure si ingrandissero, adattandosi per soddisfare il vuoto lasciato dalle tante o poche emozioni di un’adolescente. 

Il letto scricchiolava, tempo addietro si era stancato di questa costante trasformazione, tratteneva ancora il suo respiro reso inquieto dagli incubi di quella bambina. E anche lei tornava nelle vene e cicatrici di quella donna. Si dice che non si perde mai la propria essenza infantile, eppure la donna era completamente cosciente di cosa era cambiato da allora, di come una volta le sue giornate erano dettate dalle nuvole, dal colore delle foglie, dalle sue passioni più profonde. 

Si avvicinò allo specchio, che aveva una elegante cornice di legno pregiato e, fissandolo, notò le lettere e le poesie che le erano state dedicate, incollate al vetro per ricordare a quell’adolescente, insicura del suo valore, della sua bellezza. 

Oggi, come donna matura e adulta, il valore era innato nella sua efficienza e nella sua routine, erano le certezze cicliche che riconoscevano la sua vita ed i suoi successi. Questo teatro di legno, di schegge, si frantumava addosso alla ragazza ed ai suoi valori.

Oggi portava un completo di velluto turchese su misura. Il suo stile non era cambiato, era sempre rimasto un po’ smielato e con il tocco di sua nonna.

La donna si spostò con leggerezza su quel soffice pavimento che era talmente morbido che ricordava il legno di uno di quei pini che dopo tanti anni cade sulla sabbia di una spiaggia e si lascia pulire dall’acqua salata del mare. Era talmente pulito quel legno chiaro che la donna ed i suoi ricordi affondavano dentro. 

E perdendosi nel pavimento di pino, si avvicinò al pianoforte con un piede scheggiato e le note lisce e lucidate bene quanto quel guscio di mogano. Le sue unghie lunghe si poggiarono lentamente sui tasti creando un accordo stonato. Non imparò mai a suonare il pianoforte. Ci provò durante quei mesi di quell’epidemia che sembrava non finire mai, che costrinse tutti a stare a casa; ma era impaziente e poco appassionata. 

Un legno di quel tipo sembra quasi essere più grigio che marrone, rattristito dal poco rispetto che aveva ricevuto dalla ragazzina. La donna infatti, adesso toccava altri tasti, si esprimeva in parole e non musica, era una che pensava con la testa, non più con il cuore. 

E quindi seguendo il suo istinto si sedette alla scrivania la quale aveva un taglio strano, quasi come se fosse una pietra triangolare. Era uno di quei mobili che si compra in quei negozi che producono in serie gli oggetti di design. In questo suo aspetto omologato dava equilibrio alla stanza. Osservò come era finalmente pulito, senza appunti su compiti o idee improvvise, era organizzato e spazioso, però ciò creava soltanto ansia in lei. 

Si rialzò e continuando a muoversi ristabiliva il suo legame con quella sua stanza, ritrovava le sue radici, la sua autenticità, circondata da un materiale così antico, ricco di storia e vita.

Si fermò davanti all’armadio, che faceva da piedistallo agli unici pupazzi e giochi che non erano stati buttati dalla madre. Regnava sulla stanza un pinocchio, anche lui di legno, un maestro di circo, uno gnomo ed una giostra di natale, che accanto agli scatti d’innamorati per le strade di Parigi  avevano un tono vintage, di sogni incompiuti. 

Anche l’armadio aveva cambiato forma più volte, un tempo era dipinto di colori, adesso era nudo - il suo legno ciliegio spoglio. Aveva l’aspetto di uno dei tanti oggetti riportati dal  Sud America dalla madre. La semplicità costruita da mani forti e tracciate dai solchi di una vita dura. 

Dentro, infatti, tutti i suoi vestiti, alcuni considerati opere d’arte che non aveva mai indossato, altri i pezzi che una volta indossava ogni giorno. 

“I vestiti sono simbolo del nostro passato, della nostra famiglia”, aveva scritto una volta in un saggio sugli antenati. E ci credeva pienamente, gli erano stati regalati i vestiti di sua madre, di sua nonna, delle sue zie, anche di suo nonno, e spesso rubava quelli di sua sorella. Gli scaffali storti e fastidiosi avevano fatto da custode ai tanti vestiti della ragazzina. 

La donna stanca di quel lungo viaggio si sedette sul divanetto con le spalle alla finestra. La  ragazzina alla quale la stanza apparteneva non era più in lei, la donna si sentiva una straniera, sconosciuta a se stessa.

Dietro di lei, sentì il rumore degli alberi ricchi di foglie verdi mentre ballavano con il vento. Sentiva gli uccelli che non smettevano di cinguettare, come se fossimo nella foresta amazzonica, ed anche i litigi dei vicini echeggiavano nel condominio. C’era un mondo di persone, animali, di legno vivo lì fuori che l’aspettavano e che osservavano come anche lei, donna di successo che si sentiva perduta, era fatta di schegge, di anelli e di tutto il legno che proveniva da quella stanza. 

Immortale

Bojan

La pagina bianca mi spaventa come se fosse la prima volta che prendo una penna in mano con l’intenzione di scavarmi dentro. Eppure, oggi come vent’anni fa, l’ebbrezza del sentirmi artefice della parte di me che sto per scolpire sul foglio rimane dirompente, stimolante, meravigliosa. E non importa se è l’ultima volta; non importa se queste righe non le leggerà mai nessuno: è scriverle che mi libera da queste catene e mi permette di uscire da questa cella. È mettendo l’inchiostro sul foglio che riesco a dimenticare queste sbarre spesse e minacciose, ad attraversare queste pareti umide e scure, e a viaggiare. Viaggiare lontano, dove nessuno, tranne me, avrà mai la possibilità di andare. Viaggiare per terre che credevo di aver dimenticato per rivivere momenti a cui sono inspiegabilmente sopravvissuto. Viaggiare indietro nel tempo, allo scopo di essere pronto ad affrontare il destino che mi si profila davanti. Per un’ultima volta.   

Già. L’ultima volta. Mi dà una sensazione strana dover usare un’espressione così cinica e priva di emotività per catturare un momento che è invece denso di sentimenti, ricordi, rimpianti e anche di una certa pressione. Eppure queste due parole sintetizzano la mia situazione in maniera perfetta: domani mattina, alle nove in punto, io, Martin Saranen, sarò impiccato nella piazza centrale di Eden, piccolo e sconosciuto villaggio di campagna. È probabile che tutti e cinquecento i cittadini, perlopiù contadini e operai, verranno ad assistere; sarà normalissimo per loro rimandare i propri doveri e alterare la propria quotidianità per vedere un uomo che muore. Probabilmente partirà anche qualche applauso di incoraggiamento quando sarò sul patibolo; mi chiedo se troveranno il modo di indirizzarmi gli ultimi insulti o se avranno la decenza di lasciarmi andare via in pace, o quantomeno in silenzio. Sicuramente c’è tanta curiosità nel vedere come si muore quando si sa di dover morire. Il paradosso è che la condivido anch’io, perché non lo so ancora quale sarà il mio ultima pensiero, come saranno i miei occhi, come reagirà il mio cervello. Non è una cosa che posso pianificare. 

Per quanto riguarda la parte burocratica, è già tutto deciso. Questa notte è tutto quello che mi resta. Io ho scelto di donarla alla scrittura, l’unica che non mi ha mai tradito, l’unica che non mi ha mai abbandonato, neanche adesso. Sono le tre e dodici di mattina della mia ultima notte; mancano poche ore alla mia ultima alba, al mio ultimo sole, alla mia ultima colazione, che presumibilmente sarà lo stesso intruglio senza sapore che Jack la guardia mi porta ogni mattina dal giorno del mio arresto. L’ultima volta. Fa strano sentirlo, no?


Il giudice ci ha messo poco più di un mese ad emanare la sentenza, ma la verità è che tutti sapevamo come sarebbe andata a finire, io per primo. Altre opzioni non ce n’erano. Che io abbia premuto quel grilletto o meno oggi non ha alcuna importanza, ammesso che ne abbia mai avuta. Quei due sono stati trovati in un letto, nudi, i corpi crivellati; lei era un mio vecchio amore post-adolescenziale, a oggi l’unico il cui ricordo riesce ancora a farmi battere il cuore nonostante la maniera turbolenta in cui la nostra relazione si è conclusa; lui era stato il mio migliore amico, quasi un fratello dopo che i miei genitori morirono in quell’incendio che si portò via la mia casa quando avevo undici anni. Però quando, a ventuno anni, sentii l’esigenza di lasciare Eden e di esplorare il mondo esterno, nessuno dei due fu capace di perdonarmi. Lì si concluse ogni forma di comunicazione. 

Quando tornai, quattordici anni dopo, io scrittore di successo, lei medico e punto di riferimento per la città, lui sindaco e rappresentante dei cinquecento abitanti di Eden, non ci furono il tempo e il modo di riallacciare i rapporti, possibilità che oggi è stata abbattuta insieme alla loro vita. Tutti, in paese, ricordavano le nostre discordie: il verdetto, quindi, non sorprese nessuno, ma venne anzi accolto con gioia sia da quelli che volevano giustizia per il proprio rappresentante e per quella povera donna, sia da quelli che, spesso segretamente, mi consideravano un traditore per aver fatto successo lontano da casa e pregustavano la mia caduta. Agli occhi del gregge, è stato facile passare dall’essere il Martin scrittore, il Martin poeta, a essere il Martin traditore, il Martin assassino. I giornali domani eviteranno di dire che la mia ultima notte l’ho trascorsa scrivendo in una cella fredda e polverosa alla luce fioca della debole fiamma d'una candela mezza consumata, o che il mio ultimo desiderio non è stato un pasto caldo o un letto accogliente, ma una penna e un pezzo di carta; non citeranno le mie opere, ed è probabile che parleranno di me come uno straniero, omettendo che Eden è il luogo in cui sono cresciuto, la cosa più vicina a una casa che abbia mai avuto, e se oggi io sono così, è questa città ad avere almeno parte della responsabilità. A nessuno verrà in mente di provare a immaginare i miei ultimi pensieri, i miei ultimi desideri. Per loro esisto solo in quanto criminale, in quanto assassino. Riesco già a immaginare il titolo del quotidiano locale: Giustizia è finalmente stata fatta: Saranen è morto. Finalmente. Giustizia fatta. Saranen morto. Giustizia. Morto. Io nella morte di giustizia non ne vedo, ma che importanza ha? Io sono solo un condannato che pretende di avere ancora una voce. 

C’è un senso di completezza nel trascorrere la mia ultima notte qui dentro, coperto di polvere e di sporcizia. Questa cella, per quanto squallida, mi ha accettato nonostante mi abbia visto nei miei momenti peggiori, come quando, poche ore dopo il mio arresto, ero a un passo dal collasso psicofisico mentre stavo tentando di metabolizzare l’accaduto. Non è facile assimilare la morte di due persone che hanno avuto una tale importanza nella tua esistenza, seppure così tanti anni fa; ancora meno se sei tu a doverne pagare le conseguenze. Nel suo silenzioso squallore, questa cella è stata l’unica ad avermi accolto senza riserbo, senza giudizio o pregiudizio, una sorta di casa. È quindi giusto che mi faccia da testimone adesso che ogni tassello prende il suo posto nell’indelebilità dell’inchiostro, lei che mi permette di eludere la sua natura opprimente per continuare questo viaggio, indispensabile perché io domani possa salire su quel patibolo senza rimpianti.

Ricordo quando vennero nel cuore della notte nel mio appartamento; quattro rappresentanti della legge, brave persone armate di pistole e manganelli. Io stavo scrivendo; ero nel bel mezzo di una di quelle vampate di creatività che, nei rari momenti in cui compaiono, ti permettono di conoscere parti di te stesso che non pensavi fossero concepibili. Non fu perciò difficile sorprendermi. Non so come non li sentii entrare, sarà che ero così perso dentro la carta che avevo davanti. Una sorta di trance letteraria. A riportarmi alla realtà con ben poca grazia furono quattro braccia possenti che mi immobilizzarono, e un colpo di manganello che mi smozzò il fiato. 

Mezz’ora dopo, prima di chiudere la cella, ricordo che Jack mi disse: “Potevi almeno provare a scappare, ad opporre resistenza, a coprire le tracce. Hai fallito la tua unica chance”. Io sorrisi amaramente, ripensando all’opera che avevo lasciato a casa, incompiuta; il motivo per cui, due anni prima, ci ero tornato, a Eden. L’avrei intitolata L’Eden fallito. L’ironia della sorte.

L’idea di tornarci, qui a Eden, nacque all’improvviso. La vita da scrittore di successo mi piaceva e mi calzava a pennello. D’altronde, la capacità di trasformare i fatti della vita in inchiostro è sempre stata la mia caratteristica migliore; penso che persino quei tanti che adesso sono là fuori e non vedono l’ora di vedermi stramazzare farebbero fatica a negarlo. Ero bravo in quello che facevo; ero bravo ad osservare ed ero bravo a scrivere facendomi capire. Però, più il tempo passava, più Eden mi stava stretta, e specialmente dopo che il mio amore con la donna per cui oggi mi trovo qui finì in malo modo, sentii il bisogno di andare via, dimenticare le mie radici, che mi avevano cresciuto, ma che mi avevano strappato via i miei genitori e la mia infanzia in un colpo solo, divorati dalle fiamme. Quando, dieci anni dopo l’incendio, dimagrito e incattivito, decisi di partire, andai via senza salutare nessuno, senza guardarmi indietro. Forse fu un errore, ma la mia corazza non era ancora pronta a rompersi, e agire d’impulso era l’unico modo di agire che conoscevo. Due anni dopo, il mio romanzo Il buio di provincia era in cima alle classifiche nazionali. I miei lettori ignoravano le mie origini e io non facevo nulla per illuminarli. Al contrario, sguazzavo volentieri in quell’alone di mistero che circondava la mia figura, e lo usavo a mio vantaggio. Il mio romanzo successivo, anch’esso successo nazionale, lo intitolai Figlio del nulla. Chissà quanto tempo impiegarono gli abitanti di Eden a capire che Martin Saranen era quell’orfano mingherlino che ogni tanto si ritrovavano in casa a chiedere un pezzo di pane, e che la “provincia” e il “nulla” altro non erano che metafore per la loro amata cittadina? Chissà se hanno percepito il mio rancore, e soprattutto, se l’essersi sentiti rinnegati abbia influito sul verdetto del giudice?

Poi sono cresciuto e il rancore si è affievolito. Ho imparato ad apprezzare la semplicità di questo villaggio, di questa gente, ad apprezzarne la sincerità. A poco a poco, ho iniziato a sentirmi io stesso un disertore, un traditore del mio passato e di quella che, mio malgrado, è la mia gente. Certo, non tutto era stato tutte rose e fiori, e Eden mi aveva provocato un dolore che ancora oggi fatico a contenere, ma mi aveva temprato e, senza questa città, è probabile che non avrei mai ricevuto l’impulso di scrivere, che fino ad oggi mi ha salvato. L’esigenza di tornare nasce da lì, dal desiderio di redenzione, di scrivere un romanzo che dipinga Eden diversamente, con un occhio più maturo, più consapevole. Se quel manoscritto che era sulla mia scrivania quando mi arrestarono è ancora intatto, chiunque lo leggerà si accorgerà che quella che descrivo è una realtà diversa da quella di Figlio del nulla. Se lo leggesse un abitante di Eden, scoprirebbe cose su se stesso che neanche immagina. Ma sono arrivato tardi. Morirò come un traditore.

La verità è che non pago per il duplice omicidio di cui mi accusano. Io pago per una vita intera trascorsa a volere di più; pago ogni momento in cui, da adolescente, ho desiderato che Eden scomparisse; ogni momento in cui cercavo un pretesto per andarmene; ogni riga in cui ho ciecamente condannato questa città, senza rimpianto. Mi consola solo l’essere stato un artefice consapevole di ogni mio errore, capace non solo di scavarsi dentro, ma di interpretarsi e di giudicarsi, arrivando alle persone per quello che ero e non quello che volevo essere. Il mio obiettivo principale io l’ho raggiunto. Me l’ero promesso; poco dopo la morte dei miei mi dissi che sarei sopravvissuto a tutto e sarei diventato immortale, e nonostante tutto quello che mi hanno sputato addosso negli ultimi mesi, il mio nome, da qualche parte, rimarrà per quello che è stato: il nome di uno scrittore che ha lasciato una parte di sé su questa terra. Per quel poco che vale, la cosa mi consola.

Ecco Jack. Avevo ragione, l’intruglio è sempre lo stesso, ma il volto della mia guardia, per la prima volta, è triste. C’è qualcosa dentro quegli occhi burberi che io interpreto come compassione. La apprezzo, per quel poco che vale. Ora è finita davvero.

Mentre mi appresto a piegare questo foglio, ho un solo pensiero in testa:  Eden, odiarti mi è costato la vita, ma è grazie a te se oggi sono immortale.

Environment After CoVid 19
Chapter 1: The World Around Us

Opinion: A New Perspective on the Environment After CoVid-19

There are ducks in the Barcaccia, dolphins inquisitively approaching Italian harbors and weeds colonizing urban spaces where human feet no longer tread: nature reconquering lost spaces is one of the short-term effects of this pandemic.

By Jan Claus Di Blasio, Gardens and Sustainability Coordinator

Some Notes from Isolation1
Chapter 1: The World Around Us

Some Notes from Isolation

Who else has begun to think of their lives as divided into the BC (Before Covid) and DC (During Covid) eras? Oh, those simple things we took for granted: catching some fresh air during a short afternoon walk in the park. Having a coffee at the corner bar. A long, leisurely weekend lunch with a friend. A spontaneous decision to go and see a movie. For that matter, a spontaneous decision merely to go and pick up milk and laundry soap at the grocery store.

By Moira Egan - Creative Writing Teacher
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Chapter 1: The World Around Us

I’m 15 and Quarantined in Italy—You’d Be Surprised What I Miss

I was in Latin class when the Italian government announced the closure of schools two months ago.

By Anthony Avallone '23
romance corona
Chapter 1: The World Around Us

Romance in the Time of Coronavirus

Right-wing populists are romantics. I know; that sounds strange. You probably imagine romantics staring out over misty moors, their hair blowing at an attractive angle, but make no mistake—Orban, Trump, Bolsonaro, Salvini, Le Pen? They’re romantics too.

By Jen Hollis - Former Teacher of IB History, St. Stephen’s School
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Chapter 1: The World Around Us

How a Virus Interrupted the Daily Routine at a Day and Boarding School

On Thursday, March 5th 2020, an unusual silence settled into the hallways, classrooms, and dorm rooms of St. Stephen’s School.

By Natalie Edwards '14 - City of Rome I, Core 9 Teacher and member of the Boarding Faculty
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Chapter 2: Creative Writing

Winners of the Keats-Shelley House Poetry Contest

In May, two St. Stephen’s students, Leila El-Zabri and Isabella Todini, won both of the prizes in the Upper School category of the Keats-Shelley Poetry Contest. This year’s judge was Jackie Kay, award-winning poet, author, and the current Scots Makar (the Scottish Poet Laureate). Ms. Kay was extremely impressed with the technical facility and emotional depth of our students’ work.

By Moira Egan - Creative Writing Teacher
creative writing
Chapter 2: Creative Writing

Creative Writing

Ms. Egan is proud to present work that has been done in her Creative Writing Classes in the Fall and Spring Semesters. Enjoy!

red dragon
Chapter 2: Creative Writing

Children of the Red Dragon

By Ilaria Chen, Grade 10
red riding hood
Chapter 2: Creative Writing

The Golden Children

By Sofia Ghilas '21
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Chapter 4: Fall Trips 2019

Fall School Trips 2019

Welcome to our interactive Fall trips 2019 photo galleries. Click the albums for a visual journey through our adventures!

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Chapter 3: Short Stories in Italian | Italian language

Viaggio intorno alle nostre camere

By Rossano Astremo - IB Italian Teacher
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Chapter 4: Fall Trips 2019

Why We Take School Trips

When students enter St. Stephen’s as 9th graders, they will attend eight trips in the course of their career. Trips are an integral part of our identity, and one of the most frequently cited distinctions when Head of School Eric Mayer speaks with parents and students.

By Cortile Staff Writer
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Chapter 5: Departments | Molecular Genetics

Molecular Genetics, a Flagship Program

The Molecular Genetics program at St. Stephen's was introduced in 2018 in partnership with Adamas Scienze as a five-year initiative. Adamas Scienze is part of the European Molecular Biology Laboratory (EMBL) in Monterotondo, Italy that specializes in bringing university-level science to high school students.

By Fiona Leckie - Science Department Chair, Chemistry Teacher
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Chapter 5: Departments | Classics, The Lyceum

An Archaeology for the Five Senses: A Lyceum Evening

On Monday evening, a group of students, teachers, alumni, and friends of St. Stephen’s gathered in the library to explore the sights, sounds, and, most importantly, the smells of Ancient Roman cities with Ann Kolosky-Ostrow, a Professor of Classical Studies at the University of Brandeis and recent Visiting Scholar at the American Academy of Rome.

By Natalie Edwards '14 - City of Rome I, Core 9 Teacher and member of the Boarding Faculty
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Chapter 5: Departments | International Baccalaureate (IB)

The Benefits of an IB Education

The International Baccalaureate (IB) is well respected and globally recognized as a very intensive, yet highly rewarding academic programme which is offered in high schools, like St. Stephen's. If you wish to pursue higher education in Europe, such as in the UK, Germany, or Finland, then the IB will be incredibly beneficial towards taking your first steps into university.

By David Rosales '16
city of rome
Chapter 5: Departments | Classics

Discovering Our City with the City of Rome Class

One of St. Stephen’s’ signature courses, Roman Topography, got an upgrade this year. The new course is called City of Rome. In the past, students were required to take either Roman Topography or Latin 1. Beginning in Fall 2019, all ninth graders take City of Rome and choose between three classical languages: Latin, Classical Greek, or Arabic.

By Natalie Edwards '14 - City of Rome I, Core 9 Teacher and member of the Boarding Faculty
cortile sofia peng
Chapter 6: Student Life | Student Ambassador Program

Hi, I'm Sofia Peng, and I am a Student Ambassador!

I think that being a Student Ambassador made me grow so much. As a student, I concentrated mainly on my academics, yet I was never a talkative and outgoing person at school because I thought I wasn't a fluent English speaker. As it is not my first language, I have never really managed to speak comfortably around people other than my friends without feeling nervous about being judged. I always had a hard time dealing with my self-esteem and I doubted myself.

By Sofia Peng '22
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Chapter 6: Student Life | Students Love Tech!

The iLab is the Place to Be at St. Stephen’s!

I think it would be safe to say that the Innovation Lab, the ILab for short, is my favorite place in the entire school. It allows for anyone with an interest in tech, design, or anything similar to enjoy themselves while also learning at the same time and pushing themselves beyond what they thought they were going to be able to do, ever.

By Valerio Pepe '22
life in the fast lane hero
Chapter 6: Student Life | Students Love Tech!, Formula 1

Life in the Fast Lane

When you think of Formula 1, you probably don’t think of engineering, aerodynamics, economics, marketing, and design yet these are just a few of the components that go into building the sleek race cars that characterize the sport.

By Natalie Edwards '14 - City of Rome I, Core 9 Teacher and member of the Boarding Faculty
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Chapter 6: Student Life | Student Clubs, Chris Smalling

Tackling Inequality

AS Roma defender and Manchester United legend Chris Smalling was invited to talk to students of St. Stephen's School about equality in sports, his vegan diet, and, of course, football, on 2 December 2019.

By Laith Zehni '20
writing awards
Chapter 7: Scholastic Writing Awards

The Scholastic Art & Writing Awards, 2020

Again this year, St. Stephen’s Creative Writing teacher Moira Egan is delighted to present the work of her students, who achieved wonderful success in the Scholastic Art & Writing Competition for 2020. This year, students in Grades 9, 10, 11, and 12 garnered 10 Honorable Mentions, 6 Silver Keys, and 2 Gold Keys.

By Moira Egan - Creative Writing Teacher
Grade 9 award
Chapter 7: Scholastic Writing Awards

Scholastic Art & Writing Awards 2020

By Moira Egan - Creative Writing Teacher
Grade 10 award
Chapter 7: Scholastic Writing Awards

Scholastic Art & Writing Awards 2020

By Moira Egan - Creative Writing Teacher
grades 11 12 thumb
Chapter 7: Scholastic Writing Awards

Scholastic Art & Writing Awards 2020

By Moira Egan - Creative Writing Teacher
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Chapter 8: The Arts

Winter Arts Show

Enjoy a visual showcase of our Winter Arts Show highlights.

By Luigi Fraboni - Photography Studio
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Chapter 9: Alumni | Alumni Spotlight

The Next Frontier in Health Care: A Review in Regenerative Medicine

Regenerative medicine (RM) is an emerging and very exiting multidisciplinary field aimed at restoring, maintaining or enhancing tissue and, consequently, organ functions.

By David Rosales '16
Wahiba Sands
Chapter 9: Alumni | Alumni & Friends, Health & Wellness

Alumni & Friends in Oman

Our fearless leader Dr Helen Pope lead in October our 5th edition of Alumni & Friends Trip. A group of 10 alumni followed Dr Pope in Oman, The Land of Frankincense.

By Cortile Staff Writer
NY(5)
Chapter 9: Alumni

DC, NY & Boston Alumni Events

Images from St. Stephen's Alumni events across the North East last Fall.

Painting by Cate Whittemore 1972
Chapter 9: Alumni | Class Notes

Class Notes

Welcome to our first-ever digital 'Class Notes.' Enjoy the posts and images collated by Class Ambassadors from their respective years!